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OUTLOOK AZIONARIO DI METÀ ANNO

Oltre l'eccezionalismo statunitense: quale direzione per i mercati azionari?

Andrew Heiskell, Equity Strategist
Nicolas Wylenzek, Macro Strategist
6 min di lettura
2026-06-30
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Le opinioni espresse sono quelle degli autori alla data di redazione. I singoli team di gestione possono esprimere opinioni differenti e prendere decisioni d'investimento diverse. Il valore finale dell’investimento potrebbe essere superiore o inferiore a quello dell’investimento iniziale. Eventuali dati di terzi utilizzati nel presente documento sono considerati affidabili, tuttavia non è possibile garantirne l’esattezza. Destinato esclusivamente a investitori professionali.

Sta finendo l’era dell’eccezionalismo statunitense? È un’ipotesi destabilizzante per gli investitori azionari, che per lungo tempo hanno beneficiato di una crescita apparentemente inarrestabile dei mercati azionari statunitensi e della forza del dollaro. Cosa potrebbe significare tutto questo per gli investitori azionari nel 2025? 

L’eccezionalismo statunitense, in fondo, dipende da chi lo definisce. Per la maggior parte delle persone, il termine esprime una leadership incontrastata degli Stati Uniti in molteplici ambiti interconnessi: geopolitica, potere militare, crescita economica, spesa pubblica, stato di diritto, tecnologia e intelligenza artificiale, rendimenti azionari. Per noi, in qualità di investitori azionari, l’eccezionalismo statunitense si traduce in una sovraperformance costante dei mercati azionari statunitensi rispetto a quelli globali. Un cambiamento in uno qualsiasi degli ambiti che compongono l’eccezionalismo statunitense rischia di mettere in discussione molte delle assunzioni che hanno sostenuto il predominio del dollaro statunitense, con implicazioni non solo per le valute e i Treasury, ma anche per i titoli azionari statunitensi. 

Il Liberation Day ha segnato un punto di svolta, ma il cambio di regime era già in atto 

Potrebbe sembrare che questa narrazione sia stata messa in discussione solo negli ultimi mesi — in particolare all’indomani del Giorno della Liberazione — ma a nostro avviso gli annunci di Trump sui dazi rappresentano il segnale più chiaro di un cambiamento già in corso da quasi un decennio. Il precedente regime economico di crescente globalizzazione era caratterizzato da una crescita globale sincronizzata, bassa dispersione, bassa inflazione e tassi d’interesse in calo — un’epoca iniziata con la caduta del Muro di Berlino, accelerata con il NAFTA nel 1994, e che ha probabilmente raggiunto il suo apice con la creazione dell’euro nel 2000 e l’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio nel 2001. In un contesto altamente sincronizzato, gli investitori erano incentivati a ridurre la diversificazione e a concentrare l’esposizione sull’asset class che offriva la crescita migliore. Nel corso di questo periodo, e soprattutto dopo la crisi finanziaria del 2008, gli Stati Uniti si sono affermati come principali motori della crescita, trainati in particolare dal settore tecnologico ad alta capitalizzazione — una dinamica ulteriormente sostenuta dal rafforzamento continuo del dollaro statunitense. 

Ma le prime crepe in questo regime “ideale” hanno iniziato a emergere già nel 2015–2016. Abbiamo assistito a un rallentamento della crescita e a una fuga di capitali dalla Cina nella seconda metà del 2015; alla Brexit nel giugno 2016; all’ascesa del populismo, inclusa l’elezione del presidente statunitense Trump nel novembre 2016; e all’inizio della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina nel 2018.

Sebbene la pandemia abbia offuscato questa dinamica, ognuno di questi eventi ha segnalato il passaggio da una globalizzazione vista come una “marea che solleva tutte le barche” a un mondo più competitivo, improntato a logiche di somma zero e sempre più orientato al mercato interno. Abbiamo visto questo cambiamento riflettersi nelle elezioni negli Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia e Polonia, dove i partiti tradizionali hanno perso terreno a favore di movimenti anti-establishment che si sentono esclusi dai benefici della globalizzazione. Abbiamo inoltre osservato un progressivo spostamento delle politiche economiche dalla leva monetaria a quella fiscale, nel tentativo di rispondere a tali preoccupazioni. 

Il Giorno della Liberazione del presidente Trump è stato finora la prova più evidente che gli Stati Uniti stanno ridefinendo il proprio ruolo sulla scena globale. In un turbine così rapido da poter passare inosservato (Grafico 1), i mercati azionari statunitensi sono crollati per poi rimbalzare in seguito agli annunci sui dazi da parte di Trump il 2 aprile. Dopo aver prezzato una recessione statunitense, i mercati hanno fatto marcia indietro, ma non senza conseguenze: la fiducia degli investitori resta vacillante. All’indomani dei dazi, il mercato sembra stretto tra due forze opposte: il panico di breve periodo e l’ottimismo di lungo termine. Una preoccupazione centrale, oggi, è che il mercato possa reagire in modo eccessivo ai rischi immediati, sottovalutando al contempo la possibilità di sfide più profonde e durature. 

Grafico 1

Grafico con una linea curva a forma di sorriso che rappresenta l’andamento tendenziale del dollaro in diversi scenari di mercato

Cosa significa tutto questo per i titoli statunitensi? 

Il cambio di regime e le iniziative dell’amministrazione Trump 2.0 iniziano a sollevare interrogativi sulla tenuta di alcuni pilastri dell’eccezionalismo statunitense, in particolare quelli legati alla geopolitica, alla spesa pubblica, allo stato di diritto e al trattamento dei capitali esteri. Le implicazioni di questo cambiamento devono ancora essere pienamente comprese, ma la conseguenza più evidente di un ridimensionamento dell’eccezionalismo statunitense è probabilmente un indebolimento del dollaro, con ricadute su tutti gli attivi denominati in USD — in misura maggiore sulle valute e sui rendimenti obbligazionari, ma comunque rilevanti anche per i titoli azionari. Detto ciò, un dollaro più debole ha implicazioni dirette anche sulle esposizioni ai titoli statunitensi, in particolare per gli investitori non statunitensi, che devono considerare attentamente l’impatto sui rendimenti netti e sulle strategie di copertura valutaria. 

Il semplice fatto che ci stiamo allontanando da un’era di forte sincronizzazione e correlazioni elevate comporta implicazioni rilevanti per gli investitori, sia in termini di opportunità che di gestione del rischio. Continuare a concentrare tutto il portafoglio negli Stati Uniti appare imprudente alla luce del contesto attuale. Molti portafogli restano fortemente esposti ai titoli azionari statunitensi e ad asset denominati in dollari, riflettendo una tendenza del capitale a fluire laddove è stato storicamente trattato meglio. Tuttavia, gli investitori devono ora chiedersi: Come viene trattato quel capitale ora, e come potrebbe essere trattato in futuro?

Tutto ciò non significa necessariamente che le grandi aziende tecnologiche statunitensi siano diventate meno straordinarie, ma un contesto caratterizzato da correlazioni più basse e volatilità più elevata rende la diversificazione nuovamente centrale. Negli ultimi dieci anni, un’allocazione concentrata sui titoli statunitensi ha penalizzato sia la diversificazione sia la copertura sul dollaro. Non è più detto che sarà così, considerando che le correlazioni tra Paesi si trovano oggi ai minimi da diversi decenni (Grafico 2).

Grafico 2

Grafico con una linea curva a forma di sorriso che rappresenta l’andamento tendenziale del dollaro in diversi scenari di mercato

Il nuovo contesto potrebbe anche offrire un margine maggiore per i gestori attivi di generare valore — un’impresa difficile in un periodo in cui le azioni statunitensi ad alta capitalizzazione hanno registrato una crescita quasi ininterrotta per 15 anni. Se il regime precedente era dominato da un’elevata componente beta e da un contributo alpha limitato, quello futuro potrebbe vedere l’opposto: correlazioni più basse e dispersione più elevata, creando così maggiori opportunità per i gestori attivi di distinguersi. 

Dove altro potrebbe valere la pena guardare? 

Le azioni europee stanno attraversando un cambiamento di regime, che di recente ha preso velocità. Questo potrebbe innescare la più grande rotazione dai tempi della crisi finanziaria del 2008, generando un’opportunità significativa. 

Anche se le azioni europee appaiono tatticamente tirate dopo la forte sovraperformance registrata nella prima metà dell’anno, continuano a presentare valutazioni interessanti, sia in termini assoluti che relativi. Ciò crea opportunità interessanti di diversificazione, soprattutto perché le prospettive interne per l’Europa sembrano essere migliorate strutturalmente. 

Questo cambiamento di regime non sarà lineare, ma riteniamo che i principali vincitori saranno alcuni segmenti del comparto "value", come le banche e le telecomunicazioni europee, i titoli della difesa, le small cap europee e quelle società che abilitano la transizione energetica protette da elevate barriere all’ingresso, come gli operatori di rete. I probabili perdenti saranno invece i principali beneficiari della globalizzazione e dei bassi tassi d’interesse.

Le azioni giapponesi beneficiano di numerose dinamiche favorevoli, tra cui l’aumento degli investimenti interni, l’attivismo degli azionisti, la crescita dei salari e una spinta verso l’automazione e l’efficienza. Anche l’aumento dei dividendi e dei buyback, insieme a un’inflazione strutturalmente più alta, contribuiscono a rendere il contesto più positivo. Questo si sta traducendo in un insieme di opportunità sempre più interessanti per le azioni giapponesi. Va tuttavia sottolineato che le riforme in materia di governance e le misure di politica economica hanno un impatto più marcato sulle società giapponesi a bassa e media capitalizzazione. 

La nuova fase orientata alle priorità interne ha rappresentato un vantaggio per le imprese di dimensioni minori, come dimostra la rinnovata sovraperformance delle small cap nella maggior parte dei Paesi — con l’eccezione degli Stati Uniti. Man mano che gli effetti dirompenti dei dazi su inflazione e crescita iniziano ad attenuarsi, anche le small cap statunitensi potrebbero trarre beneficio da queste stesse dinamiche, soprattutto in presenza di un ampliamento della crescita. Ed è proprio qui che la ricerca approfondita può fare la differenza, in un contesto di maggiore disparità, dispersione e minore copertura da parte degli analisti sell-side — fattori che possono contribuire a generare risultati positivi per la gestione attiva. 

In un mondo più volatile e caratterizzato da una crescita più contenuta, riteniamo inoltre che le società di qualità con capacità di crescita costante — i cosiddetti “stable compounders”, che mostrano solidità, resilienza e bilanci solidi, siano esse titoli growth o value — diventeranno sempre più interessanti per quegli investitori in cerca di rendimenti affidabili.

E adesso?

In definitiva, concentrarsi solo sulla possibile fine dell’eccezionalismo statunitense rischia di far perdere agli investitori di vista i cambiamenti di regime già in atto — cambiamenti che hanno già implicazioni concrete per i portafogli. Ci stiamo allontanando da un periodo caratterizzato da elevata sincronizzazione e forti correlazioni, con conseguenze significative per gli investitori, sia in termini di opportunità che di gestione del rischio. Un indebolimento del dollaro statunitense potrebbe influire sugli asset denominati in USD, rendendo ancora più evidente l’importanza della diversificazione. Nel frattempo, le azioni europee e giapponesi potrebbero offrire opportunità interessanti. Soprattutto, gli investitori dovrebbero chiedersi se le loro allocazioni azionarie stiano evolvendo in linea con un panorama d’investimento in trasformazione.

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